Il ghosting è la violenza psicologica preferita della nostra generazione - THE VISION
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Esistono due tipi di persone: quelle che affrontano la fine di una relazione dicendo le cose come stanno, e lasciando che l’altro faccia altrettanto, e quelle che semplicemente spariscono. Io appartengo alla seconda categoria e perciò sento di poter dire la mia su quello che sembra sia ormai un tratto generazionale. È nata addirittura una parola per definirlo: ghosting, ovvero diventare dei fantasmi, sparire improvvisamente, smettendo di rispondere a chiamate, messaggi, email, anche se fino a quel momento sembrava tutto andasse bene. Di fatto è una tattica interpersonale passivo-aggressiva: si parla di ghosting soprattutto per l’ambito sentimentale, ma può interessare anche i rapporti d’amicizia o professionali. Qualcuno potrebbe dire che non c’è niente di nuovo: gli stronzi e i vigliacchi sono sempre esistiti.

Negarsi, sparire nel nulla, è sempre stato possibile, ma la comunicazione via internet ha reso endemico il fenomeno. Chat e social permettono lo scambio di messaggi a oltranza, spesso anche in assenza di rapporto diretto, e non c’è più molta differenza – soprattutto per chi è cresciuto dalla seconda metà degli anni ’90 in poi – tra sentirsi a distanza e parlarsi dal vivo. La comunicazione online rende molto più semplice non assumersi la responsabilità delle proprie azioni. E il passaggio dal contatto intensivo al silenzio è questione di un attimo: basta chiudere il pc e alzarsi dalla scrivania o rimettere in tasca il cellulare. Su internet ci si può rappresentare come si vuole e quando non si riesce a gestire qualcosa la soluzione è lì a portata di mano: si smette di rispondere, si silenzia la chat o si va direttamente offline.

 

Attraverso un sondaggio il sito di appuntamenti Plenty of Fish ha rilevato che su un campione di 800 utenti fra i 18 e 33 anni, l’80% di essi ha subito un’esperienza di ghosting. Altre fonti ridimensionano un po’ il fenomeno al 50% degli intervistati, ma in ogni caso sembra si tratti un vero trend. Spesso il ghosting è l’esito di stili di attaccamento disfunzionali, ovvero di relazioni affettive sbagliate con quelli che la psicologia contemporanea definisce caregiver, cioè i genitori o comunque chi si è preso cura di noi durante l’infanzia. Il dolore emotivo, quando viene sperimentato in fasi molto precoci, tende a creare degli schemi che poi tendiamo a replicare. Io stesso, prima di diventare un esperto di ghosting attivo, sono stato un esperto di ghosting passivo.

Quando ero piccolo mio padre mi prometteva che sarebbe venuto a prendermi per portarmi in posti nuovi ed entusiasmanti – i miei si sono separati un paio d’anni dopo la mia nascita – ma spesso non si presentava agli appuntamenti, senza nemmeno avvisarmi. Restavo in attesa, per ore, vicino al telefono che non squillava. Le sue sparizioni non sono mai state accompagnate da una spiegazione, e lui ricompariva magari dopo una settimana o due, come se nulla fosse. Non è un modo di giustificarmi: fare ghosting è terribile, ma è contagioso. A credere che si possano gestire in questa maniera le relazioni si impara; è un comportamento a cui si assiste e di cui poi ci si appropria. E anche se un trauma pregresso non elimina la responsabilità delle nostre azioni, almeno fornisce un appiglio dal quale partire per risolvere la cosa.

Sin dall’adolescenza mi capita spesso di sottrarmi quando c’è qualcosa che mi dà fastidio o mi ha messo a disagio. Anche se in realtà io, proprio come mio padre, sono un esperto più che altro di uno dei corollari del ghosting: lo zombieing. Ovvero il fatto di tornare all’improvviso – come zombie, appunto – dopo un periodo di silenzio. Gli zombie sono quelli che ci ripensano, o che erano spariti solo per un po’. Mi sono reso conto che pratico ghosting e zombieing per mantenere il controllo, cosa che non potrei fare se mi esponessi alle reazioni imprevedibili dell’altro. Chi come me fa ghosting ha un obbiettivo – uscire da una situazione scomoda – e ha davanti a sé due strade per conseguirlo: può scegliere quella più incasinata, ovvero affrontare la questione col diretto interessato e farsi carico delle sue reazioni, oppure può scegliere la scorciatoia, scomparendo nel nulla. Il ghosting è l’alternativa più facile: si raggiunge lo stesso risultato, ma con molta meno fatica.

Noi amanti del ghosting abbiamo serie difficoltà ad accettare l’idea di poter deludere le aspettative dell’altro. Non riusciamo a essere i cattivi della situazione, o i deboli, o quelli sbagliati. Non vogliamo sentire su di noi il peso del giudizio negativo della persona a cui diciamo no, e quindi scegliamo di non vedere le conseguenze delle nostre azioni. Evitiamo il nostro disagio annullando del tutto l’altro, nel tentativo (assurdo) di essere amati lo stesso, nonostante la rottura. O almeno di non vederci proiettati addosso una perdita di stima e delusione.

Conosco bene le conseguenze traumatiche del ghosting. Sono assolutamente d’accordo con le ricerche che dicono che il disagio che si sperimenta in casi del genere è violento e ben poco astratto: il rifiuto sociale attiva nel cervello gli stessi percorsi neurali del dolore fisico. È dilaniante e ingestibile avere a che fare con una persona che ti piace, o con cui stava iniziando una storia, e che di punto in bianco scompare. E rimanere in contatto con gli altri è molto importante per il nostro istinto di sopravvivenza: il nostro cervello ha un sistema di monitoraggio sociale (SSM) che controlla l’ambiente per capire come reagire alle situazioni che coinvolgono gli altri e il ghosting priva proprio di questi segnali. Quando l’autostima collassa, si soffre molto di più di fronte a una separazione, perché si è visto che il corpo produce meno endorfine, le quali aiuterebbero a sentire meno il dolore della perdita. Il ghosting fa sì che la persona che ne è vittima impieghi più tempo per superare la separazione: nel silenzio immotivato reagire e andare avanti può essere praticamente impossibile.

Il ghosting, dunque, è una forma di abuso emotivo da parte di chi lo pratica. Ma è anche, essenzialmente, una forma di autodifesa basata su una serie di risposte istintive e automatiche. Insomma: è roba da maneggiare nello studio di un terapeuta. Se avete a che fare con qualcuno che sparisce all’improvviso, rendetevi conto che sta dimostrando soprattutto la sua inadeguatezza e la sua fragilità. Se invece vi trovate dall’altra parte, se vi rendete conto di non riuscire ad attraversare la fine di un rapporto, considerate piuttosto l’idea di farvi dare una mano da qualcuno di competente. Non perché si debba essere tutti buoni e responsabili: fare ghosting è un modo di gestire i problemi che nasconde una grande immaturità psicologica. Chi interrompe una relazione sentendo di non potersi permettere di rendere conto di quello che fa, facilmente si porta dietro un miscuglio di sentimenti malsani. Senso di colpa, paura, convinzione di non sapere gestire il dolore, mancanza di autonomia, per non parlare del fatto che lasciarsi alle spalle una marea di conti in sospeso non è geniale neanche se si volesse guardare solo al proprio tornaconto. Il bisogno di scansare tutte le situazioni compromettenti è un serio campanello d’allarme.

Prima o poi una situazione che ci priva del mantello dell’invisibilità capita a tutti. E a quel punto il rischio di ritrovarsi come i molluschi senza la conchiglia è altissimo. Non tutti i problemi si lasciano annullare dalle nostre sparizioni. Parola di ghoster.

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